Fino a pochi anni fa, di fetish si parlava sottovoce e chi lo praticava doveva tenere il segreto ben custodito; trovare luoghi in cui esprimersi e goderne liberamente non era impresa facile, soprattutto nei piccoli centri.
Il fetish delle mutandine usate, poi, non era neanche lontanamente immaginabile in Occidente, neanche quando in Giappone il culto dell’intimo usato era già largamente diffuso persino negli anime e nei manga più popolari.
Ora basta una semplice una ricerca su Google che alla voce Panty Fetish si apre una finestra su un mondo, anzi, una galassia fatta di video che analizzano il fenomeno, fumetti, foto, servizi di programmi televisivi, siti o gruppi sui principali social dedicati alla vendita di intimo usato; il tutto merito anche dello sdoganamento del mondo del feticismo sempre più presente nella cultura Pop.
Sul web, in molti raccontano di questa pratica decantandone la facilità dei guadagni e l’alta richiesta ma la vera domanda è: chi lo pratica al giorno d’oggi conosce le origini di questa forma di adorazione?
La passione per l’intimo usato ha una storia antica, che affonda le radici in un paese ricco di contraddizioni come il Giappone. Lì dove è ritenuto sconveniente andare in giro tenendosi per mano e almeno 1/4 degli uomini sotto i 40 anni non ha mai avuto rapporti sessuali, hanno avuto origine i “Burusera shop“: negozi in cui era possibile acquistare indumenti utilizzati da giovani studentesse, soprattutto tute da ginnastica e uniformi scolastiche.
Ma è soprattutto guardando alla produzione fumettistica e videoludica che si può notare quanto questa ossessione sia radicata nella cultura del paese.
Iconica è la scena di Oolong, il maiale antropomorfo di Dragon Ball che, intromettendosi nella richiesta al Drago Shenron delle 7 sfere, chiede di ricevere un paio di mutandine da donna, che indosserà sulla testa per tutto l’episodio.
Lo spezzone si può ritenere persino precursore di quella che in futuro verrà chiamata “Kaopan“, la moda del fotografarsi con un paio di mutandine in faccia, figlia a sua volta di Hentai Kamen, un super eroe che trae i suoi poteri da una stravagante uniforme: un paio di mutandine femminili a coprirgli il viso.
Sono altrettanto innumerevoli le scene da protagoniste delle mutandine di Bulma, indicative dell’ossessione nipponica per l’intimo femminile. Meglio se ancora indossate.
Ed è proprio per questo che, una volta entrate in vigore leggi più restrittive riguardo la vendita di intimo usato nei Burusera da parte di ragazzine giovani, troppo giovani – per non dire quasi sempre minorenni – che le ragazze cominciarono a cambiare strategia e permettere ai loro “kagaseya” (let. annusatori) di annusare l’aroma delle loro mutandine direttamente dalla fonte, mentre ancora le avevano addosso, evitando scambi e contatti.
Da successive evoluzioni, poi, nasceranno i “Namasera shop”, in cui, in modo ancor più intrigante, le mutandine vengono sfilate dalle ragazze e consegnate al momento dell’acquisto.
In una puntata pesantemente censurata in Italia, infatti, un Goku ancora bambino sfila gli slip a Bulma dopo averli appena annusati, mentre, in un’altra, il genio delle tartarughe cede la sua sfera in cambio di una sbirciata alle sue mutandine. Insomma, nulla lasciato al caso.
Ci vorrà ancora un po’, però, perché questa pratica si liberi dei tabù e dai retrobottega arrivando successivamente in Occidente in maniera più diffusa se non addirittura mainstream.
Nel frattempo, non si contano i manga e gli Hentai in cui i giapponesi riversano ogni pulsione sessuale repressa, sotto forma di fantasie bizzarre – tra i più noti, il tentacle rape (scene di rapporti tra donne e polpi, ndr) -, tra pratiche che non potranno mai vedere forma nella realtà ed altre che, invece, vengono effettivamente praticate, per quanto assurde possano sembrare.
La grande ricerca di “Go for a Punch” Sin dalle sue origini su 4chan, “Go…
Malgrado quanto si possa pensare, osservando gli espliciti riferimenti al sesso nelle opere artistiche, in Giappone il sesso non solo non è molto praticato, ma non è neanche visto come un atto di piacere. In un’ottica profondamente diversa da quella occidentale, nella coppia esso non costituisce affatto parte fondamentale ma è, piuttosto, un dovere.
Quale migliore soluzione, quindi, se non quella di sfogare le proprie pulsioni – opportunamente ampliate e distorte dall’astinenza e dall’assenza di romanticismo – creando teneri personaggi femminili sempre accondiscendenti, sottomessi, su cui riversare le proprie fantasie sessuali?
Quasi la totalità di anime e manga sono creati da uomini per uomini, anche quelli comunemente associati alle bambine: le striminzite divise da scolarette delle Sailor Moon ne sono un vago indicatore.
Ecco che Goku, Oolong o il Genio delle Tartarughe, più che eroi, diventano la mera proiezione di un qualsiasi giapponese medio o – peggio – un “chikan“, parola che identifica i molestatori che operano in luoghi pubblici, in particolar modo su treni e metropolitane.
Infatti, soprattutto sui treni le ragazze rischiano di venire fotografate e riprese da sotto le gonne a loro insaputa; un fenomeno talmente diffuso da aver costretto le autorità a creare dei vagoni per sole donne.
Ed è proprio sugli indumenti che i giapponesi si concentrano. Ma perché?
Nel feticismo, l’attenzione si sposta dalla persona al particolare del corpo o all’oggetto; quasi non serve più che il/la protagonista del fetish abbia un corpo o un’identità.
In aggiunta, nell’immaginario erotico nipponico le mutandine bianche delle studentesse – meglio se intraviste da sotto le gonnelline delle iconiche uniformi scolastiche – sono da sempre simbolo della purezza e spregiudicatezza adolescenziale; la massima, per loro, espressione di erotismo.
Curiosamente, mentre in Occidente una vera e propria rivoluzione culturale a difesa del sex work ha spalancato le porte a questa particolare pratica, in Giappone, là dove tutto è cominciato, i Burusera sono nel frattempo diventati illegali, mentre il fenomeno delle molestie in luoghi pubblici da parte dei chikan resta pericolosamente diffuso.
Si è però passati ai “gashapon” a tema: comodi e pratici distributori automatici di mutandine indossate, dove basta qualche moneta e un pulsante per raccogliere un pacchetto con uno slip, con foto ed età della ragazza che li indossava.
Insomma, il culto per le mutandine usate non è mai tramontato ma, anzi, si è evoluto col tempo, anche se rimane a malapena tollerato dalle autorità.
Curioso che, a sdoganare la pratica del panty selling online in Occidente, siano state – pare – proprio due studentesse, ma americane, che cercavano un modo per pagarsi i costosissimi studi… riuscendoci in pieno.
Testate giornalistiche, serie e film hanno cominciato a parlarne, rendendolo sempre meno tabù e sempre più fenomeno sociale da affrontare senza vergogna, favorendo così l’aumento della domanda anche da parte di chi prima non si sarebbe interessato alla pratica o, semplicemente, non si sentiva abbastanza coraggioso da esprimersi liberamente.
Alla fine, dall’America al Giappone, siamo tutti un po’ Bulma o un po’ Goku.
Fastidiosamente curiosa, devota alle 7 arti e al true crime. Scrivo meglio di come parlo e l’unica cosa che amo più dei gattini è il ctrl+Z.
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